Audi presenta al Salone di Detroit una versione concept della R8 motorizzata con un poderoso V12 TDI da 500CV

La cilindrata è pari a 6 litri mentre la coppia massima erogata è di ben 1.000 Nm. Presentata nella colorazione gracesilver è l’esempio del know-how che Audi ha maturato nel settore dei motori a gasolio.

La coppia massima che ho indicato è disponibile già a 1.750 giri/min mentre la velocità massima che può raggiungere questa R8 a gasolio è di oltre 300 km/h.

Il motore
Il motore V12 presenta angolo tra le bancate pari a 60°; gli alberi a camme sono guidati dalla stessa catena (montata sul retro del motore) che comanda le due pompe che generano l’alta pressione per il sistema common rail di ultima generazione montato da Audi. La trasmissione del moto agli alberi a camme prevede il seguente layout: la ruota dentata, montata sull’albero motore, trasmette il moto ad una ruota dentata intermedia. Da qui partono due catene che comandano gli alberi a camme e altre due catene che azionano rispettivamente la pompa olio e le due pompe ad alta pressione del sistema common rail. Le pompe del sistema di iniezione sono a due pistoni.

L’interasse tra i cilindri è pari a 90 mm mentre una corsa di 91.4 mm e un alesaggio di 83 mm concorrono a formare una cilindrata complessiva di 5.934 cc. Questa unità è estremamente compatta visto che la sua lunghezza totale è di soli 684 mm, una caratteristica essenziale per poterlo inserire in zona centrale sul telaio della R8. Il basamento è stato realizzato in ghisa grafitica vermicolare (sigla esatta GJV-450), lo stesso materiale che è stato utilizzato per i motori V6 e V8. Le proprietà che rendono questo tipo di materiale allettante per la produzione di monoblocchi sono la sua maggior rigidità e la superiore resistenza a fatica (40% in più per la prima, due volte superiore per la seconda) rispetto alla ghisa tradizionale.
Le testate di ogni bancata sono state realizzate in tre zone principali: quella inferiore in lega di alluminio ad elevata resistenza, con i condotti di aspirazione e scarico, quella superiore che integra i condotti di incanalamento del lubrificante ed infine un telaietto di rinforzo su cui vengono montati i due alberi a camme. Le valvole sono azionate da bilancieri a rullo e dai motori TDI V-6 e V-8 è stato derivato il sistema di variazione della turbolenza attraverso il quale il moto dell’aria diretta ai cilindri può essere modellato secondo esigenza.

La pressione di iniezione nel rail raggiunge i 2.000 bar e il gasolio viene iniettato in camera di combustione tramite iniettori piezoelettrici a otto fori di ultimissima generazione. Le iniezioni possono essere fino a 5 per ciclo.
I gruppi di sovralimentazione (due turbocompressori a gas di scarico) sono disposti all’esterno delle bancate e sono del tipo a geometria variabile. La pressione di sovralimentazione massima (pressione assoluta) è di 2.6 bar. La carica compressa viene raffreddata da due grandi intercooler.
La R8 V12 TDI concept è già conforme agli standard Euro 6 che probabilmente entrerà in vigore nel 2014 e che impone ambiziosi obbiettivi nella riduzione degli ossidi di azoto. Per ottenere questo risultato i tecnici di Ingolstadt hanno fatto uso, oltre che di due filtri anti particolato, della tecnologia Clean Diesel. Si tratta di un sistema formato da uno speciale catalizzatore montato a valle del filtro antiparticolato e da un serbatoio supplementare che contiene una soluzione acquosa a base di urea. Quest’ultima viene nebulizzata all’interno del sistema di scarico in modo tale che, una volta a contatto con i gas caldi, separa gli ossidi d’azoto in azoto e acqua. L’efficacia del sistema è assicurata per tutta la vita della vettura.

Telaio, sospensioni e freni
Per la R8 è stata utilizzata la tecnologia ASF (Audi Space Frane) per la realizzazione di una scocca in alluminio. La carrozzeria completa pesa solo 210 kg ed è composta da elementi estrusi e da altri pressofusi. Grande lavoro è stato svolto per ottimizzare i flussi aerodinamici e creare la deportanza necessaria a stabilizzare la vettura alle velocità più elevate. Lo spoiler posteriore estraibile concorre a migliorare il comportamento complessivo. Posteriormente spiccano due coppie di terminali perfettamente integrati con la parte finale dei diffusori mentre anteriormente l’esigenza di ottenere ampie prese d’aria è visibile nel design che caratterizza tuta la parte frontale.

Le sospensioni sono, sia per l’avantreno che per il retrotreno, del tipo a doppi bracci trasversali e fanno uso della tecnologia Audi Magnetic Ride. I dischi freno sono in materiale ceramico, rinforzato con fibra di carbonio, che oltre ad offrire ottima resistenza al fading mostrano sensibili vantaggi in termini di peso. Le pinze che comandano le guarnizioni frenanti sono a sei pistoni.

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Bill Mitchell e Zora Arkus Duntov
Stilisti ed ingegneri in lotta per far prevalere le proprie idee. Quello che vi racconto è lo scontro culturale tra un designer innamorato delle proprie creazioni ed un ingegnere di fama mondiale che voleva far prevalere praticità e razionalità. Ecco la breve storia di una discussione tra Bill Mitchell e Zora Arkus Duntov, due uomini che hanno fatto la storia della Corvette.

Lo scontro di opinioni tra stilisti e ingegneri è un argomento che ricorre spesso quando si parla di automobili; alcune di queste discussioni passano però alla storia. Io che ho un debole per la produzione automobilistica americana voglio ricordare ciò che accadde quando fu il momento di sviluppare la nota Corvette Stingray del 1963. I personaggi in questione sono due figure leggendarie dell’automobilismo americano: il primo, Bill Mitchell, allora vice Presidente del Centro Stile di General Motors verrà certamente ricordato come uno dei più grandi designer americani. L’altro, Zora Arkus Duntov fu un ingegnere di indubbie capacità che diede un contributo di notevole portata al prodotto Corvette.

Bene, due uomini incredibili ma molto diversi tra loro; sta di fatto che nel 1963, quando fu il momento di concretizzare il prodotto Stingray, nacque un’animata discussione oggetto della quale era proprio il lunotto posteriore sdoppiato che rese famosa la Stingray di quel periodo. Ad intervenire per sedare gli animi fu un personaggio al di sopra di tutti e dotato dei necessari poteri per mettere a tacere i due. Il suo nome era Ed Cole e lui era il General Manager del Gruppo Chevrolet. Mitchell, e il suo uomo di fiducia Larry Shinoda, allora chief designer, avevano sviluppato un linguaggio formale che esigeva per la Stingray del 1963 il noto lunotto sdoppiato. La costola di lamiera che separava i due vetri posteriori era il perfetto completamento di ciò che si poteva osservare guardando la parte frontale della vettura. Dal canto suo Duntov non era granché interessato all’espressione artistica che i due avevano sviluppato ed era, al contrario, seriamente preoccupato per i problemi di visibilità posteriore che tale soluzione offriva. La cosa era ancora più preoccupante se si pensa che la vettura doveva essere impiegata anche nelle competizioni. Fu così che in breve tempo quelle linee e quello stile che erano la passione di Mitchell divennero il tormento per Duntov. L’intervento di Ed Cole fu decisivo e fondamentale; ricordiamo a questo proposito che Ed Cole fu capo ingegnere del gruppo Chevrolet dal 1952 al 1956 data nella quale venne nominato General Manager. La decisione che Cole prese accontentò entrambi i contendenti e creò, allo stesso tempo, un mito: la Stingray del 1963.

Ciò che Cole decise, infatti, fu che entrambi i partecipanti alla discussione avevano ragione e pertanto, senza scontentare nessuno, decise che la Stingray con lunotto posteriore splittato sarebbe stata costruita per un solo anno, il 1963 e mai più. Questa fu anche l’ultima decisione che Cole prese nei panni di General Manager del gruppo Chevy visto che nel novembre del 1961 fu promosso executive vice president al posto di Semon E. Knudsen, un altro illustre personaggio di cui avrò modo di parlare.


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