In viaggio per gli States - Arizona, New Mexico, Colorado e Utah - C’era una volta il West…

Nella terra di Wyatt Earp e Billy the Kid, in un angolo di mondo dove la pioggia cade veramente con il peso di un dono, ho visitato luoghi non comuni. Dal deserto di Yuma ai cactus Saguaro di Tucson, fino allo splendore accecante delle White Sands in New Mexico. Da queste, proseguendo verso nord, ho raggiunto Durango, in Colorado, e quindi Moab nello Utah. Un ultimo sforzo per apprezzare la maestosità dell’Arches National Park e quindi di Canyonlands. Poi il ritorno verso Phoenix, il sapore della fine e un’occasione per rivedere, ancora una volta, la Monument Valley.

Prologo: pubblicai queste note di viaggio qualche tempo fa su una rivista dedicata al mondo dei SUV e del fuoristrada. Questo viaggio è uno dei tanti momenti in cui mi sono immerso nelle abitudini di un paese per cui nutro particolare affetto. Lo ripropongo qui su News for Wheels, leggermente modificato ma identico nella sostanza.

Introduzione
Lo chiamano Southwest. E’ un territorio ben preciso degli Stati Uniti d’America: sono quattro stati che hanno fatto la storia dell’ovest americano, il West per l’appunto. Sto parlando di Arizona, New Mexico, Colorado e Utah. Un aspetto curioso sono i cosiddetti Four Corners, l’unico punto d’America in cui quattro stati si toccano contemporaneamente. Una zona dimenticata da Dio e dagli uomini, dove con un solo passo potete passare dall’Arizona al Colorado. Un cerchio suddiviso in quattro spicchi. Tutto intorno spazi immensi, colori da togliere il fiato e il solo rumore del vento che soffia senza tregua su terre conquistate con il sudore della fatica. All’interno di questi quattro stati si possono creare una miriade di percorsi tematici, più o meno legati alla Storia del West. Una storia fatta di trappers, cowboys, fuorilegge e uomini di legge, pionieri, soldati e nativi americani.

Quattro stati e due personaggi celebri
Quello che ho organizzato questa volta è un tour di circa 2.500 miglia in grado di toccare, in maniera più o meno decisa, i quattro stati del Southwest. Si tratta di un percorso pianificato dall’Italia con origine nella capitale dell’Arizona. Parto quindi da Phoenix con un primo spostamento in direzione Ovest, verso Yuma. Dopo aver vissuto la solitudine del deserto e aver visitato la Territorial Prison, attraverso la I-8, mi ritrovo a Tucson. Ancora una volta dopo aver attraversato decine e decina di miglia di deserto inospitale. Un luogo dove riescono a sopravvivere solo scorpioni, serpenti a sonagli, cani della prateria e americani temerari. Quanto mi mancano quegli spazi! Subito l’atmosfera si fa magica perché sotto il sole cocente della zona più calda degli Stati Uniti ci appaiono i cactus Saguaro, una pianta che esiste solo nel Sonoran Desert. Una forma di vegetazione che mi dice chiaramente che quella in cui mi trovo è l’Arizona del Sud. Per chi legge i fumetti è tutto noto: siamo nella terra di Tex Willer. A Nord le lande desolate dei Navajo, a Sud, e neanche tante miglia lontano, il Messico. Come non aspettarsi quindi una contaminazione messicana della lingua inglese, dell’accento, della musica, del cibo e del modo di vivere. Tucson rimane in ogni caso una tappa fondamentale perché è proprio negli Old Tucson Studios che sono stati girati tantissimi tra i più famosi film western.

Qualche anno fa feci tappa a Tucson per la prima volta. Ho ancora una sorta di volantino che recita: 101 cose da fare a Tucson. Ne prendo atto e decido di fermarmi in questa piacevole cittadina dell’Arizona per assaggiare l’autentica cucina dei pionieri durante una Chuckwagon Supper. Il menù comprende un barbecue di carne, fagioli, patate, insalata di pesche, panini caldi e altro ancora. Tutte le informazioni per organizzare la cena le ho recuperate, naturalmente, presso il Visitor Center della città. Sempre a Tucson faccio base per una visita alle Chiricahua Mountains, una terra irta di rocce e patria di alcuni capi indiani di grande spessore tra cui Geronimo e Cochise. Scopro anche di avere a disposizione più di 27 chilometri di sentieri per fare escursioni o equitazione. Sessanta miglia mi sembrano tante, soprattutto per uno spostamento consigliato in giornata. Ma mi adatto, capisco che per gli americani si tratta di una distanza assolutamente nella norma e per questo decido di visitare una famosa base dell’esercito americano. Raggiungo quindi la cittadina di Sierra Vista dove trovo Fort Huachuca, un avamposto di edifici che risalgono all’ultimo decennio del 1800. Il museo interno è un tributo ai Buffalo Soldiers, i soldati neri che hanno servito nell’esercito americano fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Nel 1862 la cavalleria costruì Fort Bowie, una stazione di frontiera cruciale per il servizio postale della Butterfield Overland Mail Route. Questo forte assunse un’importanza strategica nella lunga ed estenuante lotta tra esercito e indiani Apache. Non lontano da questo insediamento fu infatti consumata la resa di Geronimo. I resti del forte, in architettura adobe, li raggiungo a piedi percorrendo un sentiero di 2.4 km dall’Apache Pass.
Una cosa è certa: Tucson può essere considerato un punto di appoggio tattico per numerose escursioni off-road. Una base da cui partire per avventurarsi su sterrati e percorsi anche un po’ impegnativi. Non posso evitare di far tappa alla Colossal Cave, la più grande grotta degli Stati Uniti dove un tempo i fuorilegge cercavano spesso rifugio. Un labirinto di cristalli dove si dice vi siano ancora dei tesori nascosti. Prima di lasciare Tucson è quasi inevitabile dedicare un pò di tempo allo shopping. La sensazione è quella di essere capitato in un posto letteralmente invaso da negozi di articoli in pelle. Non mi sto sbagliando. Consultando una guida scopro che cinture, portafogli, borse, cappelli, selle e stivali sono articoli tipici di questa città.
La tappa successiva è Tombstone. Per arrivarci ho ancora una volta dovuto far affidamento sul mio Trailblazer con il quale, dopo aver attraversato miglia e miglia di deserto, entro in quella che oggi è nota come The Town Too Tough Too Die, la città troppo dura per morire.

Tombstone rimane una delle attrattive più incredibili in fatto di architettura Old West di fine ‘800. Le passerelle di legno che si snodano sui due lati della main street sono in parte ancora quelle che il 26 ottobre del 1881 furono testimoni del famosissimo Gunfight all’O.K. Corral. Uno scontro a fuoco tra i fratelli Earps, allora rappresentanti della legge in quel di Tombstone, e la fazione dei Clanton e dei McLaury, una masnada di sgherri che terrorizzarono la cittadina per parecchio tempo. Erano cowboys che vivevano praticando azioni di discutibile fama: detto in modo più esplicito erano ladri di bestiame che facevano il bello e il brutto tempo, a Tombstone e nei dintorni. Dopo la sparatoria dell’O.K. Corral, a cui prese parte anche un altro personaggio leggendario del West, Doc Holliday, seguirono processi, vendette e ulteriori vittime. Mi sembra quasi incredibile percorrere quei luoghi che poche decine d’anni prima avevano messo a dura prova gli uomini dell’Ovest; la polvere del deserto circostante è ancora una variante attiva della cittadina di Tombstone e una serata al Big Nose Kate Saloon, o al Crystal Palace, è la miglior scelta per passare qualche ora indimenticabile tra musica country e americani paciosi che sembrano aver vinto su tutto e su tutti. E guardando il paesaggio appena fuori mi sembra di veder arrivare da lontano una Stagecoach (diligenza) della Wells & Fargo, la nota compagnia che trasportò persone, merci e beni preziosi in giro per tutto il West.
La musica country che si trova così a suo agio nel Tennesse è in realtà la musica simbolo del West e quindi dei cowboys. Proprio per questo motivo mi sembra inevitabile visitare un’altra cittadina buttata nella sabbia, là, in mezzo al nulla, dove la vita scorre con ritmi tutti suoi. Fuori il deserto. Affacciate sulla main del downtown poche casette con la classica architettura in legno e qualche costruzione in stile adobe. Sono a Willcox, quasi al confine con il New Mexico. Quel ragazzino che attraversa la strada mi lascia a dir poco perplesso. E’ serafico, tranquillissimo e contento. Sembra non patire il senso di smarrimento di una comunità annegata nel nulla. La sua sicurezza è quella di un uomo navigato ma esagero se dico che si tratta di un quindicenne. Eppure questo è quello che ha voluto il destino per gli americani dell’Ovest: una terra dove la vita è qualcosa da guadagnarsi quotidianamente con coraggio, fatica e tanto ottimismo. Gli americani mi dicono che la cittadina di Willcox è famosissima in tutta l’Arizona. Non capisco, è impossibile. Quattro case nella sabbia all’estremo est dell’Arizona e a poche miglia dal New Mexico cosa possono avere di famoso? Domanda sbagliata, perché in America il concetto di famoso è tutto da capire. Da svelare. Da riconoscere. La realtà è che Willcox, un posto dove sembra impossibile che l’uomo sia potuto arrivare, e abbia potuto decidere di fondare una comunità, è il paese che ha dato i natali a Rex Allen, noto cantante e cowboy dell’Arizona. Il figlio, Rex Allen Jr., divenne famoso per aver creato la canzone dello stato “I love you Arizona”.

Ora tutto è più chiaro! Ancora una volta si parla di loro, dei cowboys. Una figura leggendaria che è stata, e che tuttora è, la passione di una moltitudine di bambini europei e non solo. Il cowboy, con il suo cinturone, i suoi stivali, e la sua fedele cavalcatura, ha assunto nel tempo connotati magici. E’ pensare che tradotto letteralmente nella nostra lingua il significato è tuttaltro che eccitante: il ragazzo delle vacche, alias mandriano, alias vaccaro. Però cowboy fa tutta un’altra scena! Ecco, ci sono cascato ancora! E’ nuovamente la volta delle usuali e misere considerazioni di un europeo fortificato dalla consapevolezza di una storia millenaria alle spalle. Quasi per caso mi accorgo di perdermi nella forma e di tralasciare la sostanza. Già, perché il cowboy è veramente una figura mitica dell’America, un’icona del West. Qualcuno disse: Where God Put the West! Già, è proprio così, laggiù, dove Dio ha messo il West, ci volevano uomini di sostanza. Personaggi temprati da una vita massacrante, che con un cappello in testa, un paio di jeans, una camicia e un foulard rosso legato al collo hanno imparato la dura vita del deserto. Con il tempo si sono perfezionati e hanno sviluppato tecniche tutte loro per il controllo del bestiame. Lo strumento principale che ha affrancato ogni cowboy, nella sua difficile esistenza, è stato senz’altro il cavallo. Il Rodeo (pronunciatelo rodio con l’accento sulla o iniziale) divenne presto l’evento chiave in cui ogni cowboy metteva in vendita le proprie capacità. Nei periodi estivi tutte le cittadine più importanti del West hanno il proprio rodeo e, sebbene il Wyoming sia lo stato dei cowboy per eccellenza, l’Arizona non rimane seconda a nessun’altro in materia.
L’estensione degli spazi che mi circondano è fuori dalla portata di qualsiasi scrittore. Non esiste penna in grado di mettere nero su bianco lo stato d’animo che si prova nell’essere avvolti dal nulla. Il vento soffia, la polvere si alza e il sole cala all’orizzonte, là dove quelle interminabili pianure di terra arida sembrano mettere un veto alla parola civiltà. Eppure mi volto, lo osservo nuovamente. Quel ragazzino di quindici anni sembra muoversi sempre con grande disinvoltura. Rapito da un paesaggio che avevo letto solo sui libri, o nelle pagine di un fumetto, lo osservo mentre raggiunge casa con il portamento di chi ha già la forza d’animo dell’americano adulto del West.
Willcox è la mia ultima fermata in Arizona prima di entrare in New Mexico, in direzione Est verso Silver City, la città dove nacque e visse gran parte della sua vita il noto fuorilegge Billy the Kid. La sua morte, per opera dello sceriffo Pat Garrett, che lo freddò a Fort Sumner (sempre in New Mexico), sorprendendolo nascosto a casa di un amico, ha generato un altro degli eroi della frontiera. Billy the Kid visse solo ventun’anni e in questa breve vita uccise più di dodici uomini. Silver City oggi appare come una cittadina tranquilla, una di quelle che non sembra aver mai conosciuto la violenza. Eppure il suo nome è citato numerose volte nei testi che raccontano i trent’anni più violenti di tutta la Storia del West, quelli successivi alla Guerra di Successione.

Anche in questo caso il paese è dislocato secondo il tradizionale schema. Sulla strada principale, epicentro del downtown, si affacciano gli edifici più importanti. All’esterno sorgono invece le abitazioni residenziali. Sono le 7 del mattino e la cittadina sta ancora sonnecchiando. Dopo una sveglia un po’ anticipata decido di non indugiare ulteriormente, scatto qualche foto e parto in direzione sud verso Las Cruces, lungo la US180. A Deming impegno la US70 che mi porta diritto alle White Sands. Un altro paesaggio surreale, questa volta di sabbia bianca. Rimango ammutolito.

In un silenzio abissale, turbato solo da qualche raffica di vento, riscopro ancora una volta il contatto con la natura più selvaggia. Ho l’assoluta percezione del nulla e immediatamente capisco perché qui l’esercito americano si è preso la libertà di testare qualche arma di troppo. Per entrare nelle White Sands il copione è lo stesso, il medesimo da utilizzarsi quando si entra in un parco americano. Una casetta in legno e una sbarra mi bloccano in prossimità dell’ingresso, laddove un ranger mi invita a pagare la quota di accesso, fornendomi una serie di piantine utilissime per esplorare l’intero parco. L’organizzazione degli americani farebbe invidia anche al tedesco più incallito. Per la visita seguo il solito loop, un percorso obbligato che mi offre una visione d’insieme di questa immensa distesa di sabbia. Il mio compagno di viaggio sembra procedere senza problema, la presenza della trazione integrale non è fondamentale ma mi rassicura. Il sole, il caldo e la sabbia, che si alza ovunque, non sembrano turbarlo mentre il climatizzatore lavora con l’efficienza tipica di tutti i sistemi americani di questo tipo. Decine e decine di anni di esperienza nella progettazione di questi circuiti danno il loro frutto anche in condizioni difficili. Accecato dai raggi del sole che vengono riflessi dalla sabbia procedo a velocità ridotta tra dune e cespugli verdi. Il tempo però è tiranno. Come al solito non basta mai e la visita alle White Sands si limita alla percorrenza completa del percorso obbligato e ad una piccola fermata per lasciare le mie impronte su una delle tante dune di sabbia bianca. Da qui parto per andare verso nord puntando il muso della vettura verso Albuquerque e quindi faccio rotta verso il Colorado. Le cose si fanno pesanti! Devo attraversare il New Mexico, quasi per intero, percorrendolo da sud verso nord. Poco male se non fosse per le notizie via radio. Scattered thunderstorm, acquazzoni sparsi, hanno inondato numerose strade del paese. Procedo comunque, sotto un cielo plumbeo con il timore di essere investito da uno dei temporali che si stanno abbattendo sulla Land of Enchantment, la terra d’incanto. Non vedo l’ora di arrivare a Durango. Quella che mi aspetta è una cittadina di cui sono chiaramente innamorato. Ma sto tornando per la terza volta e voglio cenare da Francisco’s, un ristorante a metà strada tra abitudini culinarie messicane e americane. Arrivo a sera inoltrata e trovo sistemazione nel solito Super8. Questa tranquilla cittadina di montagna con costruzioni in stile vecchio West, con case basse, di cui alcune costruite in legno, ha una grande main street! Su questa c’è Francisco’s dove potrò gustare la miglior cucina degli Estados Unidos. E’ il ristorante più famoso di Durango e ampiamente conosciuto nello stato del Colorado. Lo trovate al n°619 della Main Avenue. A Durango si possono fare tante cose ma come al solito per questioni di tempo devo scegliere. Ed essendoci tornato per la terza volta decido di tuffarmi in uno shopping sfrenato tra gli scaffali di un famoso outlet Ralph Lauren. Lo trovate a fianco della stazione da cui parte il treno per Silverton. Poco distante riappare quell‘originale negozietto con tutti i gadgets tipici del West. Singolare, quanto realistica, la scritta che capeggia su una tavola di legno appesa al soffitto in prossimità dell’ingresso: Cowboys, scrape shit from your boots before entering.

Nella piazza che si apre al confine sud della main street c’è un treno vecchio stile pronto per una gita di andata e ritorno. Si parte da Durango, si arriva a Silverton e si torna indietro. Il percorso è mozzafiato visto che la tratta ferroviaria presenta alcuni passaggi in costa alla montagna, con paesaggi che solo le Rocky Mountains sanno offrire. Da Durango a Moab sono circa 200 miglia. La cosa bella è che nel giro di circa un’ora passo dal Colorado allo Utah, uno stato di canyon e di alcuni tra i parchi più belli di tutto l’Ovest americano. Sulla sinistra del percorso, anche in questo caso, a poche miglia di distanza, i Four Corners.
Il primo parco che visito è l’Arches, e naturalmente il desiderio nascosto è quello di vedere da vicino il Delicate Arch. Un arco naturale che si erge sul bordo di un canyon che alle sue spalle ha come sfondo il gruppo montuoso La Sal. Il Delicate Arch, così definito perché destinato a spaccarsi in un futuro non troppo lontano, è anche il simbolo leggendario che si trova sulle targhe dello Utah.

La formazione di questi archi di roccia rossa è del tutto originale: l’intero parco infatti giace su un letto di sale spesso migliaia di metri che si depositò su tutto l’altopiano del Colorado circa trecento milioni di anni fa. Questa grande crosta di sale venne coperta nel tempo da una serie di detriti. Lo spessore delle rocce che si depositarono nel tempo superò anche il chilometro e mezzo. Il risultato è quello che vediamo oggi; sotto il peso della massa rocciosa lo strato di sale si spostò, si curvo e si liquefece spingendo in alto la roccia. Intere sezioni caddero nelle cavità terrestri provocando spaccature verticali che diedero origine agli archi.
La visita all’Arches non richiede un 4×4 ma, come in molti altri casi quando si viaggia per gli States, è sempre meglio poter contare sulla robustezza e sulla capacità di carico di questi veicoli, oltre che sulle eccezionali doti degli impianti di climatizzazione di cui sono dotati. Moab rimane la mia base per la serata che segue alla visita dell’Arches. L’indomani mi aspetta Canyonlands. Per chi non sapesse di cosa realmente sto parlando faccio semplicemente notare che i paesaggi di Canyonlands sono quelli che hanno fatto da sfondo a film di indubbia fama come Mission Impossible II, Thelma & Louise, Indiana Jones e l’ultima Crociata (1988); per non parlare di indimenticabili cult movie western come Rio Grande (1950), I Comancheros (1951), l’Autunno dei Cheyenne (1963) o ancora Taza, la Figlia di Cochise (1953).

Canyonlands è il parco nazionale più grande di tutti gli Stati Uniti d’America, una vera opera della natura che, al pari di altri luoghi dell’Ovest, è capace di suscitare emozioni di grande portata. E’ suddiviso in tre zone da due famosissimi fiumi che hanno accompagnato la vita reale, e inventata, dei personaggi del West: il Green e il Colorado River. Questi fiumi suddividono Canyonlands in tre zone: Island in the Sky, the Needles e The Maze. Per vedere queste tre zone è necessario accedere dall’ingresso nord e da quello sud che tra loro distano qualche decina di miglia. Da Island in the Sky mi godo una vista che spazia in ogni direzione per più di 100 miglia (160 km). Più tardi scopro che molti appassionati di fuoristrada decidono di godersi le spettacolarità di The Needles percorrendo tratti off-road a fondo differenziato. Leggendo la guida, che mi è stata data all’ingresso del parco, vedo che è possibile uscire dal tratto di strada asfaltata per sfruttare a pieno le doti di un 4×4 passando in mezzo alle rocce rosse dello Utah, seguendo tragitti appositamente segnalati per chi ama fare fuoristrada. Lo sapevo ma non immaginavo di quale portata fosse la notorietà di Moab. Questa cittadina è, di fatto, il punto base per tutti gli americani e per i turisti stranieri che vogliono avventurarsi all’interno di una moltitudine di percorsi off-road di difficoltà e lunghezza variabili.
Dopo i due giorni passati all’Arches National Park e a Canyonlands parto volgendo il muso della mia Chevy verso sud per raggiungere nuovamente Phoenix. Naturalmente passo per l’ennesima volta dalla Monument Valley. E’ d’obbligo arrivarci da nord lungo la US163. Questa volta scopro che la strada è stata completamente riasfaltata con un manto nero corvino. L’impatto visivo è da togliere il fiato. Qualcuno sostiene che era meglio la colorazione grigio chiaro della versione precedente. Sono punti di vista ma, in ogni caso, lo spettacolo rimane affascinante. Una visita completa alla Monument Valley richiede circa una mezza giornata o più. La visione è da vero western movie.

Le rocce di arenaria rossa che si stagliano in mezzo al deserto sono tra le opere più originali che madre natura abbia saputo creare. Il rapporto tra bianchi e Navajo è in generale molto buono anche se potrà capitarvi di incontrare personaggi un po’ meno disponibili e, a volte, all’apparenza un po’ troppo ombrosi. E’ il risultato del difficile cammino di tolleranza che ha accomunato i bianchi e i nativi americani. Ancora oggi gli effetti delle imposizioni del Grande Padre Bianco, su questa gente fortemente attaccata alla propria terra, si riflettono nei rapporti sociali tra nativi e bianchi americani. Meglio non entrare nelle riserve se non dove opportunamente segnalato!
Superata la terra dei Navajo il tour potrebbe considerarsi finito anche se, con un po’ di tempo in più a disposizione, si potrebbe far visita a Flagstaff, a Sedona e all’Oak Creek Canyon. Ancora una volta rocce rosse, questa volta immerse nel verde, e un po’ di notorietà dovuta al fatto che Sedona è considerata il centro della New Age, la nuova filosofia per l’esplorazione dello spirito.
Il ritorno a Phoenix rimane sempre qualcosa dai connotati magici. Un amico americano, originario dell’Oklahoma, mi disse un giorno: ”bella città Phoenix, peccato che è in mezzo alla sabbia!” Ed è questo che rende incredibile una città che ha molto da raccontare e mostrare. Ben organizzata, e con quartieri che farebbero invidia anche all’europeo più snob, questa città contornata da palme e deserto è attiva e luminosa quanto lo è il sole che quotidianamente la illumina. E’ la città della vera America fatta di gente onesta, sincera, a tratti un po’ rude, ma estremamente spontanea. Non fraintendetemi perché Phoenix, all’occorrenza, sa essere raffinata e ricercata. Il centro fatto di grattaceli è un’altra icona americana. Edifici che neanche lontanamente possono sostenere il confronto con quelli di una Manhattan destinata ad espandersi solo verso l’alto. Ma, come da tradizione, anche il centro di Phoenix è una grande scatola vuota che di mattina si riempie e di sera si svuota. E’ il flusso migratorio degli americani che lavorano in città ma che amano vivere nella campagna circostante.

Ogni volta che torno a Phoenix è come far rientro a casa e puntualmente, quando la saluto per tornare in Italia, so che ci sarà un’altra occasione. Perché ogni volta non è mai abbastanza.

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